giovedì 30 agosto 2007

Rotola, rotola...





Cronaca. L’autopsia sulla mummia di Similaun ha accertato che l’uomo è morto durante un concerto dei Rolling Stones” (Daniele Luttazzi)
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Come raccontare cosa sono stati i Rolling Stones? Quelli veri, non quei sessantenni un po’ incartapecoriti che vanno in giro da vent’anni in qua a raccogliere fondi per se stessi, senza più un’invenzione musicale né uno straccio di cose da dire?
Eppure non si può far finta di nulla, non si può non riconoscere che siano stati protagonisti e registi della trasformazione della morale e dei costumi di una intera generazione; gli studiosi di sociologia ne parlano come di capobanda di una cospirazione internazionale di «sballati» rock and roll, destinata ad insidiare la civiltà occidentale con droga, musica, sesso libero, satanismo e violenza. Sulla stampa sono innumerevoli le accuse di ogni genere: persino un giornale anni luce lontano dalla musica giovanile, l’ “Osservatore Romano”, ha parlato di loro, indicandoli come “lo strumento di Satana per rapire l’anima dei giovani”.
Fatte le debite eccezioni, non si può non pensare che una vicenda leggendaria come la loro presupponga, in un certo senso, la complicità. Per usar le parole di Mick Jagger, il «pifferaio magico» della rivoluzione: «Tutte le storie che si sono raccontate sul mio potere carismatico, su Jagger il perversore... ci siamo trovati in tanti sulle stesse posizioni, non è forse stato così?».
Gli Stones sono stati i primi a creare un certo «modo di vita giovanile» radicalmente nuovo, prendendo gli elementi repressi dalla società ed esprimendone la confusione e la frustrazione in maniera bizzarra. Le loro canzoni, le loro «recite» sulla scena sono finalizzate al progetto di una nuova società nella società.
I Beatles sono stati gli iniziatori di tutto ciò, e gli Stones sono da considerare il catalizzatore e l’amplificatore del discorso, conducendolo alla sua logica conclusione; e se, da un lato, il loro effetto è stato meno universale di quello dei Beatles, ai quali sono stati da sempre contrapposti in quelle guerre di religione che servono, in realtà, solo ad autocastrarsi sulla via della conoscenza –in realtà erano amicissimi- , d’altro canto si deve loro riconoscere una maggior insidiosità, se è vero che per la collettività è più difficile assorbire certe posizioni antisociali. Gli Stones si sono sempre compiaciuti del ruolo di «fuorilegge» loro assegnato, anche quando ciò ha significato il bando delle canzoni, la censura di certe copertine (quella di “Beggar’s Banquet”, ad esempio, con i celebri graffiti sul cesso), addirittura l’intervento dei tribunali. Chi ha visto il film “Ufficiale e gentiluomo” (ma qualcuno NON l’ha visto?) ricorda che il rigido istruttore apostrofa i cadetti con l’accusa infamante, tra le altre su omosessualità e smidollaggine, di aver passato la vita “ad ascoltare musica dei Rolling”: un marchio di infamia, appunto.
Ed «effetti collaterali» di segno opposto rispetto alle intenzioni: quando nelle scuole inglesi fu sancita l’espulsione degli studenti che avessero introdotto nelle scuole “dischi, canzoni, abbigliamento o taglio di capelli dei Rolling, o ad essi riconducibili” il risultato fu quello di diffonderne ancor più facilmente idee, canzoni, usi e costumi tra la popolazione studentesca.
Quell’arroganza da «sbandati», più volte sfoggiata, li aveva resi gli aristocratici della nuova morale. «Non siamo gente vecchia » affermò sdegnosamente Keith Richard davanti alla Corte, quando gli fu domandato se c’era davvero una ragazza nuda al «festino con droga» per il quale era stato convocato in giudizio «e non abbiamo nulla a che fare con la vostra gretta morale illegittima.» Un discorso così, nel 1967…per capire tempi e costumi, sullo stesso quotidiano si trovava la notizia, in Italia, di un tale Pasquale Loconte condannato a due anni di reclusione per aver bestemmiato sul tram a Milano.
«Combattenti di strada» per una nuova sensibilità, gli Stones si sono da subito staccati con la loro «cultura non ufficiale» dalle convenzioni, dalla morale tradizionale, liberando il drago nascosto della sessualità latente nel rock and blues. Quando i gruppi britannici scoprirono bluesmen come Howlin’ Wolf e Muddy Waters, per ragioni sociali ed emotive trovarono facile identificarsi completamente con loro, rendendo esplicito ciò che nella musica nera era solo sottinteso. Non oppressi a livello sociale e razziale come invece accadeva ai musicisti di colore, i proletari inglesi seppero prendere gli elementi di violenza e di sesso di quegli stili, usandoli sino a farli diventare una forza socialmente efficace. Il R & B era sempre stato considerato eretico presso l’ambiente musicale inglese, che aveva favorito il jazz, specie quello tradizionale, e proprio quell’atteggiamento bigotto diede lo spunto agli Stones per riunirsi per la prima esibizione ufficiale, al Marquee Club, nei primi mesi del 1963.
Il complesso, che ancora non portava la celebre insegna e tra i componenti non annoverava Charlie Watts, esisteva dall’estate del 1962. Mick, Keith e Brian Jones costituivano il nucleo originario, formatosi alla fine del 1961. Brian, nella sua veste di unico «professionista» dei tre (aveva suonato con qualche gruppo) divenne il primo capo del complesso. Keith era un amante del rock nella sua accezione più dura, oltre che un grafico di talento. Mick, che veniva dalla stessa cittadina, Dartford, luogo celebre per una rivolta contadina del 1306, alternava seri studi alla London School of Economics ad esibizioni vocali con la Blues Incorporated di Alexis Korner, il pioniere dei musicisti r & b d’Oltremanica. Charlie e Bill Wyman, che fornivano la scatenata sezione ritmica, avevano cominciato con il jazz ma dopo aver conosciuto Alexis Korner si erano anch’essi appassionati al R & B. Nel febbraio del 1963, gli Stones cominciano ad uscire allo scoperto, diventando il complesso permanente del Crawdaddy Club, il celebre locale presso lo Station Hotel di Richmond, e creando il primo seguito di fanatici ammiratori. In maggio i cinque incisero all’Olympic i primi due singoli: “Come On”, pubblicato in giugno, e “I Wanna Be Your Man”, una canzone dei Beatles, appunto, entrambi su etichetta Decca. In autunno, il complesso si esibisce nella prima tournée inglese. con Bo Diddley e gli Everly Brothers.
Con i primi mesi dei 1964, il gruppo entra nelle classifiche inglesi con il singolo (che sul retro porta la prima delle tante, incredibili canzoni d’atmosfera del gruppo, “Stoned”), con “Not Fade Away/Little By Little” e con un extended play contenente “Poison Ivy”, “Bye Bye Johnny”, “Money” e “Not Fade Away”. Con l’aiuto del loro manager, Andrew Oldham, personaggio importantissimo ai fini della loro vicenda, re dello sfruttamento pubblicitario del nuovo fenomeno, i cinque si fanno conoscere come “il gruppo che i genitori amano odiare”. La Federazione Nazionale degli Acconciatori del Regno Unito si offre di tagliar loro le chiome, la polizia usa cani lupo ai loro concerti, mentre le ragazze si lanciano dalle balaustre e le bottiglie toccate da Mick vengono venerate come oggetti sacri. Un giro su eBay dimostra, ancora oggi, a che punto arrivi la febbre dei collezionisti.
Per un po’, gli Stones rimangono un gruppo “di nicchia”, adorato e spinto da una sparuta pattuglia di fanatici ammiratori; poi, nell’estate del 1965, si affermano quasi di colpo con “Satisfaction”, la più classica delle canzoni rock. Introdotto da un minaccioso «giro» di chitarra distorta di Keith Richard e cantato con insinuante, calcolata lentezza da Jagger, il suono «a combustione lenta» del brano riassume con linguaggio emotivo le frustrazioni degli anni ‘60. Satisfaction è una ironica, amara miscela di blues, R & B e rock, costruita secondo la formula a cui gli Stones lavoravano sin dal 1962. La fiera sintesi avrebbe brillato poi come pietra di paragone nel repertorio del gruppo. Durante lo stesso anno uscì “Out of Our Heads”, album registrato ai leggendari Chess Studios di Chicago. Quel fremente stile R & B «bianco» costituì il culmine della prima parte della carriera degli Stones. Nessun complesso bianco aveva mai saputo interpretare meglio quella musica. Benché altri cantanti inglesi di blues, come Eric Burdon o Stevie Winwood, potessero vantare voci più vicine a quelle dei modelli di colore, lo stile nasale di Jagger era più emotivo; Mick non si limitava alla semplice ricopiatura ma sapeva conferire alla musica un tocco personale, originale. Il tutto accompagnato da esibizioni live memorabili, con Mick ora sguaiato ed ora pio, ora macho duro e puro ora puttanella, il tutto condito da mosse feline e smaccatamente erotiche.
Nei primi album l’ossessione R & B degli Stones crea qualche problema in sede compositiva; per anni, Jagger e Richard si sono limitati per lo più a strane reinvenzioni di blues e soul, scrivendo canzoni come “Little By Little”, “Heart Of Stone” e “The Last Time”.
Solo con “Aftermath”, quarto album pubblicato negli Stati Uniti (contemporaneamente a “Revolution” dei Beatles, e non a caso), gli Stones possono presentare al pubblico un LP interamente composto da brani originali. Nelle prime composizioni, i testi erano semplici e ripetitivi, la musica volutamente non originale, ma con questo album ed il successivo “Between The Buttoms” gli Stones entrano nella stagione di più accesa fantasia. Accanto a canzoni che lacerano a sangue il cuore delle loro fans, una per tutte “As tears go by”, che Jagger inciderà anche in italiano col titolo “Con le mie lacrime”, arrivano inni immortali e nichilisti (“Paint it black”, “Have you seen your mother”), esaltazioni di compagnie più allucinogene che allucinanti (“Lady Jane”). Sposando l’ambiguità verbale di Dylan e la tematica sociale dei Kinks, le canzoni assumono toni surreali, illustrando una bizzarra galleria di personaggi: puttane nevrotiche, alienati suburbani, diseredati dei quartieri bassi. Così facendo, il complesso rivela una certa propensione ad esaminare precisamente i rapporti più confusi, le turbe emozionali, plasmando in forma artistica arroganza ed egocentrismo. “Under My Thumb”, ad esempio, è canzone così depravata che si giustifica per il proprio stesso scandalo.
Sul finire deI 1966, Mick e Marianne Faithfull incarnano la «nuova coppia» ideale, ovviamente salgono alla ribalta scandalizzando i benpensanti rivelando, ad esempio, un uso molto intimo delle barrette di cioccolato, mentre gli Stones sostituiscono rapidamente i Beatles come modelli della nuova generazione, tanto che Mick è costretto, in una famosa intervista alla Tv inglese, ad avvertire i fiduciosi seguaci: «Le linee attorno ai miei occhi sono protette dal copyright». D’altro canto, il complesso comincia a diventare un bersaglio. Gli Stones sono una miccia accesa, un modello di vita radicalmente nuovo e che fa paura. Un mese dopo la stampa di “Let’s Spend The Night Together”, nel gennaio del 1966, Keith e Mick sono arrestati per possesso di droga, benché mancasse la pur minima prova a loro carico, e a giugno vengono condannati rispettivamente a un anno e a tre mesi di carcere. La stampa però, ed in particolare il “Times”, li difende a spada tratta e al principio dell’estate i due vengono rilasciati. Invece di abbassare il capo e fare atto di contrizione e pentimento, pubblicano la sarcastica “We Love You”, che inizia con il suono di una porta di prigione che sbatte, e a dicembre mettono in circolazione il futuristico album “Their Satanic Majesties”, pieno di droga sino al midollo. L’album, uno degli ultimi dell’età psichedelica, è considerato da molti il più prestigioso e barocco dei loro sforzi.
Contemporaneamente agli altri nomi della Santissima Trinità della controcultura giovanile, come si diceva all’epoca, cioè Dylan e Beatles, gli Stones sospendono le esibizioni tra il 1966 e il 1969. Periodo più che buio; per Brian, in particolare, sono mesi fatali. Già minato dalla tensione del continuo girovagare, l’uomo si lascia scivolare lentamente verso la morte. Entra più volte in ospedale per una forma di esaurimento nervoso; dopo un primo arresto per possesso di droga, nell’ottobre del 1967, la polizia comincia a perseguitarlo impietosamente, «come un cane che sente odor di sangue », per usare le parole di Keith. Tanta violenza e brutalità trasformano ben presto il ragazzone gallese di un tempo in uno «spettro iridescente» -sempre parole di Keith-, reso visibile dalle droghe che lo sostengono. Quando gli Stones decidono di riprendere i concerti, nel 1969, Brian non è neppure in grado di muoversi. Il 9 giugno abbandona ufficialmente il gruppo, sostituito da Mick Taylor, già chitarrista dei Bluesbreakers di John Mayall. Neanche un mese dopo viene rinvenuto il suo cadavere. Ufficialmente è morto per annegamento, nella piscina della sua villa.
Con Brian se ne va una parte degli Stones e si perde una dimensione dello stile del gruppo, la complessità e la diversità di Brian — il suo sitar demoniaco in “Paint It Black”, il dulcimer in “Lady Jane”, il flauto in “Ruby Tuesday” — avevano conferito inflessioni strane allo stile elementare del complesso, creando tensione dialettica. Così Jagger, l’unico altro «interprete» del complesso, si trova incontrastato padrone, minando, con il proprio potere, la forza collettiva del gruppo. Lo stesso fatto che il logo ufficiale del gruppo diventi la bocca stilizzata di Mick, una delle dieci icone più famose a livello planetario nel fatidico 1970, la dice lunga.
Dopo “Satanic Majesties”, grazie a un disco non meno «artificiale», gli Stones riguadagnano i favori del pubblico, con le evoluzioni acustiche di “Beggar’s Banquet”; i mitici «prodotti di casa Jagger» conoscono nuova vita, ora ricchi d’ironia e di particolari eccitanti. Nel Banchetto fantastico, l’apparizione più straordinaria è quella di Lucifero in persona, in “Sympathy For The Devil”, un canto di vittoria per le forze del male. Con “Jumpin’ Jack Flash”, storia fantastica della loro vicenda come artisti blues, gli Stones ridefiniscono il proprio mondo interiore, in continua espansione; nel brano viene spremuto il succo dei vecchi amori musicali, Chuck Berry, Bo Diddley, Howlin’ Wolf. “Beggar's Banquet” inaugura la stagione più felice del gruppo, dal 1968 al 1972 le pietre rotolanti creano le radici di qualsiasi ramo del rock moderno. Già detto delle canzoni di Beggars, su “Let it Bleed” troviamo la riuscitissima psichedelia rock di "Gimme Shelter" (seconda nel genere solo a "Paint it Black") e soprattutto "You can't always get what you want", la ballata-rock per eccellenza, lo stampo perfetto per altre centomila canzoni che mai riusciranno ad eguagliarne la bellezza.
Del 1971 è “Sticky Fingers”, altra perfetta raccolta di capolavori. "Brown Sugar" è Rolling-sound allo stato puro, "Wild Horses" una ballata storica, "Dead Flowers" un misconosciuto gioiellino su cui ha fatto radici tutto il british-rock anni 80.
Per gli Stones, l’America è sempre stato un Paese esotico e violento, fantasticato con le potenti immagini del R & B. Ma nel 1969, dopo Charlie Manson e l’omicidio che macchia il loro concerto di Altamont, le agghiaccianti visioni raccolte in “Let It Bleed”, quelle di “Midnight Rambier” e “Gimme Shelter” diventano pericolosamente reali. Ed altre, durissime polemiche all’uscita di “Goat’s head soup”, la zuppa di testa di capra, altro simbolo demoniaco. E’ il 1972, a nulla serve la dolcezza di “Angie” quando alcune sette sataniche, al momento dell’arresto, stanno appunto degustando tale pietanza. Quest’album ed il successivo “It's Only Rock and Roll” appaiono una fotocopia, pur se leggermente sbiadita, di quanto era stato fatto nel quinquennio d'oro; ma la forza trainante degli Stones è l’equilibrio delle diverse forze, che crea l’impatto emotivo della loro musica. Il gioco degli acuti chitarristici di Keith Richard, striduli come la voce dell’elettricità, si bilancia come una lama incandescente sull’implacabile, solida sezione ritmica di Charlie Watts e Bill Wyman; Mick Jagger, dal canto suo, muove in avanscoperta con la voce dalle molte allusioni sessuali. Tanta grazia permette al gruppo di riannodare senza fatica i fili con le proprie origini, senza ricorrere alla nostalgia. Così, semplicemente, con assoluta naturalezza, può valere il fondamentale assunto: “È solo rock and roll ma è proprio ciò che voglio”.
Mick Taylor non regge il ritmo di vita e lascia il posto a Ron Wood, meno bravo ma più in linea con l'immagine del gruppo. L'importanza dei Rolling Stones non è comunque esaurita: “Black and Blue” è una rivoluzionaria miscela di rock, funky, jazz e ritmi latini, ma viene sarcasticamente inserito da Billboard nelle classifiche della discomusic, insieme a Barry White & co.. Risultati non particolarmente esaltanti, accuse di “imborghesimento” , ma ancora una volta battistrada a una nuova ondata di ritmi e sonorità fino ad allora sconosciute al grande pubblico, come il reggae di Bob Marley e Peter Tosh (che si faceva produrre proprio da Mick Jagger). Con “Some Girls” si ritorna al buon vecchio rock di sempre, mentre “Emotional Rescue” raschia senza successo il fondo del bidone di una ispirazione di nuovo arenata. L'ultimo fuoco sarà “Tattoo You”, buono ma non eccezionale.
Seguono anni di appagamento musicale, un seguire le mode, anziché imporle. Il resto della storia è pura routine, con lavori scialbi come “Undercover” o “Steel Wheels” ed episodi divertenti ma inutili come “Dirty Work”. L'ultimo capitolo è del 1994, ma anche “Voodoo Lunge” non è altro che un riuscito esercizio di stile.
Per definire cosa siano stati musicalmente “quei” Rolling Stones è sufficiente citare quello che scrive Lanny Kaye nella sua “Storia del rock”:
Il potere dei geroglifici sonori degli Stones, dei loro ipnotici atteggiamenti — le pose sataniche, l’edonismo pansessuale, la droga assurta a feticcio, la delinquenza come prassi politica — deriva dal fatto che tutto ciò è materia distillata dalle menti dei principi delle tenebre rock; sono mostri mentali vivi da sempre, svegliati dai sotterranei più fondi della geologia sonora. Le canzoni hanno tanto rilievo reale perché gli Stones, fuor d’ogni causa ed effetto, riescono ad incarnarle sino in fondo, creando così il più evidente e convincente teatro musicale del sesso. Nella commedia, Mick è uno scandaloso ventriloquo da music hall, capace di ogni volto; alla sua interpretazione, la micidiale chitarra di Keith Richard conferisce potere ed intensità. Così Jagger riesce a dar vita corporea alle creature della sua fantasia, mostri dai mille lustrini, pavoneggiandosi, regalandosi agli altri con furia narcisistica, come se le febbri dell’elettricità lo spingono a specchiarsi in ogni volto del pubblico. E noi, in comunione assoluta con l’uomo, scopriamo per il tramite degli Stones le nostre recondite potenzialità.”

Certo, vederli oggi, caricature di se stessi, sarebbe difficile crederlo: ma è il destino dei miti sopravvissuti nonostante tutto e, soprattutto, a se stessi.

mercoledì 8 agosto 2007

33 1/3



“L'uccello lotta per uscire dall'uovo. L'uovo è il mondo. Chi vuole nascere deve distruggere un mondo. L'uccello vola a Dio. Il Dio si chiama Abraxas.”
(Herman Hesse – “Damien”)

Sabato pomeriggio di spesa, solita iper, si spera meno affollata del solito. Già che ci siamo, un’occhiata in cerca di cd vergini al miglior prezzo possibile, avendo passato le ferie a casa, trovando finalmente il tempo per passare su pc un po’ di quelle cassette che ormai si possono ascoltare solo agli arresti domiciliari e se la piastra, come si chiamava in hifistereofonese, non tradisce.
Buttando l’occhio alle offerte, un tuffo nel cestone, dove, secondo la filosofia dei Peanuts “capisci di stare invecchiando” se “ci trovi la tua musica preferita”.Chissà, magari salta fuori qualcosa di buono, davvero.
Eccolo.
Il secondo album di Carlos Santana e della band che da lui prese il nome.
Abraxas.
Quanto ti piace. Quante volte ti ha accompagnato negli anni, quel padellone in vinile mai abbastanza amato.
Inevitabile, ricomprarlo su cd. Un reato di lesa maestà, non farlo.
O di omissione di soccorso verso un’anima che reclama calore musicale.
Per motivi anagrafici, l’hai conosciuto più tardi, rispetto a quel 1970 in cui è uscito, un anno dopo che il giovane chitarrista ha mandato in visibilio il pubblico di Woodstock con una esibizione sufficiente a farlo entrare nella storia. “Rock latino”, fu definito: comoda etichetta per entrare in una strada asfaltata di profondo misticismo, blues, jazz, ritmi calienti sudamericani, trascinanti percussioni dal denso sapore tribale, una fusione di stili e ritmi verso i quali potevi solo arrenderti e lasciarti andare.Già dalla copertina, con una Venere Nera che stringe tra le cosce una colomba bianca, trionfante in un cromatismo violento e delicato, colori di una diapositiva saturata all’inverosimile.Gregg Rolie, tastiere e (che) voce principale, David Brown al basso, Michael Shrieve alla batteria, Mike Carabello e Josè Areas alle varie percussioni: e lui, Carlos Santana che imperversa con la sua chitarra ammiccante come una proposta, libera come un grido, suadente come un piacere, avvolgente come un amplesso, travolgente come un orgasmo.Santana, quindi: che, a differenza di altri grandi chitarristi del rock (e dell’epoca), non domina solitario la scena, non punta su di sé il riflettore del despota di ogni discorso musicale, ma si fonde con il tessuto ritmico fornito dalle percussioni e dialoga in assoluta parità con basso, batteria e tastiere.E non è un caso che la firma dei brani di questo disco, quando non si tratti di cover, sia per lo più degli altri membri della band.
Abraxas, nella versione originale, contiene 9 brani in 37 fulminanti minuti di una delle più geniali ramificazioni del rock.“Singing winds, crying beasts” di Mike Carabello, è come camminare a piedi nudi sul marmo sempre più scaldato dal sole, accompagnati dal crescente e virtuoso suono delle congas; “Black magic woman/Gypsy queen”, rielaborazione di due motivi per un solo, fantastico impasto di blues e dintorni, preparato in separate sedi dai Fleetwood Mac e Gabor Szabo, che ti scuote come una raffica di vento prima di un temporale; “Oye como va” di Tito Puente, uno dei “mambo kings” che hanno dominato sul regno degli anni 50, e che ti agita involontariamente i piedi; “Incident at Neshabur”, cinque minuti di pura poesia della mescolanza, dove i suoni non ti arrivano addosso, ma ti compenetrano.
Ed il temporale arriva, poi, sui ritmi indemoniati di “Se a cabo”, del rock quasi duro di “Mother’s Daughter” (scritta da Gregg Rolie), con la migliore sezione vocale del disco, trascinante e grintosa nell’intrecciarsi di chitarra e basso; ad asciugare e riscaldare, dopo la tempesta, arriva "Samba Pa Ti" (l’unica firmata da Santana), costituita praticamente da un assolo di chitarra, morbido ed evocativo; una specie di fiaba narrata da una voce rassicurante, una voce solista, molto umana pur non essendo umana, che ha fatto innamorare tutta una generazione. Una corda (non) vocale che impone di fare silenzio. E, come accadeva (agli altri…) nelle feste dell’epoca, in quel silenzio ci stava di tutto (alla fantasia, alla libera interpretazioni, o ai ricordi, è affidata la spiegazione di questo “tutto”).
Poi, “Hope You’re Feeling Better”, sempre firmata Rolie: esplosiva miscela della chitarra di Santana con la tastiera e la voce di Rolie stesso: un brano possente senza eccessi, con un inizio strepitoso e una parte chitarristica di riferimento assoluto. Come mettere la testa sotto un phon virulento e potente, di cui non trovi l’interruttore.
Chiude “El Nicoya”: un sentimento invadente che conclude idealmente il racconto, una corrispondenza di amorosi ritmi e voci in un frammento che spicca il volo verso l’eternità.
Verso quel dio che si chiama Abraxas.

giovedì 26 luglio 2007

Un angelo caduto in volo



Per mia indole sono, musicalmente parlando, un libertario.
Non ho mai imposto a nessuno di comperare nulla, meno che mai dischi. Non ho mai sopportato quelli che "Tu devi avere /non puoi non comperare/come si fa a non …". Tranne rare eccezioni: per dire, Beatles e Rolling Stones, Battisti e Pink Floyd. E non ho mai imposto nulla, non ho mai usato aggettivi come "imperdibile", "essenziale", "indispensabile". Stavolta pero’ devo fare un’eccezione. Se trovate un qualunque cd tra quelli citati nelle prossime righe, ritenetelo un acquisto essenziale come il pane. Il 25 novembre di trent’anni fa se n’è andato un angelo. L’ angelo caduto in volo si chiama Nick Drake. Anche fisicamente, la versione destinata al paradiso di quell’essere che, nella versione per gli inferi, assumeva le sembianze di Jim Morrison. Devo mettere in guardia, dato che molti di noi, a giudicare quello che so legge in giro, temoamo l’intensità, il ritrovarsi clamorosamente nudi sotto le maschere quotidiane, la paura di affogare nelle profondità dell’anima: ascoltarlo può voler dire trovarsi di fronte a paesaggi così vasti da scatenare un attacco di panico, od ascoltare accordi più caldi del primo caffè del mattino. Come De Andrè, Battisti, Lennon, Mitchell, Buckley padre e figlio, Drake ha quel qualcosa nella voce che ti porta a piegare la testa, a chiudere gli occhi nel tentativo di scoprire se sia il soffio sottile emesso assieme alle sue note ad aprirci il petto, o solo una malinconia, che come la neve non fa rumore, per qualcosa che non ti sai spiegare bene. Scoprire la sua musica è come trovare un nuovo modo di percepire la realtà davanti alle mille prevedibilità che ci circondano. Ci vuole coraggio per affrontare questo tipo di viaggio.
Un coraggio che però ripaga oltre ogni previsione.
Nick Drake nasce il 19 giugno del 1948, e, dato che niente succede per caso, sua madre Molly scrive e canta canzoni per hobby. Esiste uno splendido documentario biografico, voluto e prodotto con insospettabile sensibilità da Brad Pitt, nel quale mamma Molly suona e canta una canzone (una registrazione trovata da Gabriella, la sorella di Nick, per i seguaci del gossip diremo che era un’ attrice – è la ragazza dai capelli violacei nei telefilm "Spazio 1999") e a quel punto tutto diventa sin troppo chiaro. Introvabile, purtroppo: ogni tanto passa su qualche tv satellitare specializzata, chissà se, nell’occasione dell’anniversario, qualcuno non decida di accontentare qualche migliaio di irriducibili e pubblicarla su dvd. Viveva, giunto all’età di due anni dalla Birmania, a Tamworth-in-Arden, vicino a Coventry. Paesaggio collinare, aperto e sostanzialmente bucolico, il che, negli artisti sensibili, influenza sempre la produzione. Ragazzo timido e introverso, innamorato dei poeti del simbolismo francese. E continuerà a vivere lì, lontano dalla mondanità: leggenda vuole che si recasse in treno a Londra solo per incidere gli album o comperare libri, viaggiando in classe economica. Il 25 novembre del 1974 la madre Molly lo trova morto nel suo letto. L’autopsia parla di avvelenamento da dose eccessiva di antidepressivi, ma non si saprà mai se ingoiati con volontà suicida, o solo quella di chi sta cercando di sedare una stato d’animo troppo lontano dalla tranquillità. Nick Drake aveva sino ad allora realizzato tre album: Five Leaves Left (1970), Bryter Layter (1970) e Pink Moon (1972). Con scarso successo di vendite, il che ha forse contribuito ad amplificare una forma depressiva, probabilmente in atto da tempo. Nelle sue canzoni, in primo piano troviamo quasi sempre solo la voce e la chitarra acustica, anche se non mancano arrangiamenti di archi e ospiti eccellenti come Richard Thompson, Danny Thompson e John Cale. Ascoltare la grazia con cui vengono pronunciate le parole "I saw it written and I saw it say/Pink moon is on its way/And none of you stand so tall", con cui inizia "Pink Moon", lascia irrimediabilmente incantati. Quella voce quieta, flebile, sussurrata, accompagnata dal suono nitido della chitarra acustica e da pochi altri strumenti, e queste canzoni dolci e strabilianti, autentiche perle ricche di malinconia e suggestioni, aprono un mondo del tutto nuovo. Pezzi che racchiudono sentimenti profondi e la voce di un uomo. Questa è la semplice ragione per cui risultano così toccanti, perché contengono la vita, le paure, le gioie, le speranze e la poesia di Nick Drake. Ci sono artisti che descrivono la realtà, altri che la trasformano, altri ancora che la ignorano. Nick Drake ci passa attraverso per raccontarla servendosi di risvolti mai visti, che solo la magia della musica può svelare. Forse è la dolcezza immensa che la malinconia sprigiona a rendere così forte l’approccio alla sua opera. È l’arte del descrivere le emozioni attraverso simboli, che sono fatti di mare, di fiumi, di prati, di alberi e di stagioni. Una natura che vibra per ciò che lascia ogni minuto dietro di se, sapendo che niente ritorna. È il riflesso dell’anima, un’anima aperta e disponibile a farsi toccare dall’essenza pallida delle cose. È la bellezza che non nasconde i suoi lati più crudi. È profondità, la sua arte, in cui non c’è differenza tra voce e suoni: è la fotografia che lo ritrae mentre guarda fuori dalla finestra della sua stanza, in un momento felice. Un poeta, una voce di dentro, un vento in apparenza gelido che, una volta passato dalle fessure dell’anima, in realtà è capace di scaldare più di un maglione pesante, anche se questo può comportare il prezzo della nudità di cui parlavo all’inizio. Un lungo, meraviglioso viaggio, dove l’occhio fuori dal finestrino è rapido nel cogliere l’occasione di raccogliere frutti e fiori dai colori intensi e dai profumi inebrianti. Canzoni come battello ebbro su e giù per le vene. Dopo la sua morte, i dischi sono rimasti in catalogo, nelle serie economiche; nel 1986 esce una raccolta di brani inediti e demo delle canzoni contenute negli album sopra citati, Time Of No Reply; nel giugno 2004 una raccolta con un inedito e riarrangiamenti, Made to love magic. Qualunque cosa troviate, compratela, senza indugi o reticenze.Una medicina per le ferite, un sorriso che si diluirà nelle pieghe dell'anima. Ogni suo album è l'espressione della grazia, della fragilità, delle emozioni, quelle che poche persone sanno percepire, perché richiedono ascolto e partecipazione. Se siete disposti ad ascoltare, Nick saprà parlarvi con la sua musica e le sue parole.

"When I was younger, younger than before
I never saw the truth hanging from the door
And now I'm older
see it face to face
And now I'm older gotta get up
clean the place.
And I was green, greener than the hill
Where the flowers grew and
the sun shone still
Now I'm darker than the deepest sea
Just hand me down, give me a place to be.
And I was strong, strong in the sun
I thought I'd see
when day is done
Now I'm weaker than
the palest blue
Oh, so weak in this need for you"

"Quando ero giovane, più giovane che mai
Non ho mai visto la verità pendere dalla porta
E adesso che sono più vecchio
la vedo faccia a faccia
E adesso che sono più vecchio devo alzarmi a pulire il posto
Ed ero verde, più verde della collina
Dove crescevano i fiori
e il sole brillava ancora
Adesso sono più scuro del mare più profondo
Fatemi passare, datemi un posto in cui stare
Ed ero forte, forte nel sole
Pensavo di poter vedere quando
il giorno era finito
Ma ora sono più debole
dell'azzurro più pallido
Oh, così debole in questo bisogno di te "

(Place to be)

venerdì 15 giugno 2007

Nessuno uscirà vivo da qui


Lo sapevi che la libertà esiste
Nei libri di scuola
Lo sapevi che i pazzi dirigono la nostra prigione
Dentro una cella, dentro una galera
Dentro un bianco libero protestante
Maelstrom
Siamo appollaiati a capofitto
Sul ciglio della noia
Ci sporgiamo verso la morte
all’estremità di una candela
Sondiamo attorno per qualcosa
Che ci ha già trovati […]
La morte ci rende tutti angeli
E li mette le ali
Dove avevamo spalle
Lisce come artigli
Di corvo.
Basta coi soldi, basta coi vestiti pazzi
Quest’altro reame pare di molto il migliore
Finché nell’altra sua fauce l’incesto non appare
e scioglie l’obbedienza ad una legge vegetale
Non ci vado
Preferisco una festa d'amici
Alla famiglia del Gigante

(Jim Morrison – American Prayer)

Notte insonne.
Una telefonata che non arriva e che non sgombera la mente da pensieri inquieti.
Arriva, poi, un attimo prima del definitivo scoramento.
Il sonno se n’è andato all’improvviso, allora resti lì, giochi col telecomando, sbatti su un canale satellitare francese.
Immagini già depositate da qualche parte della memoria, dove non credevi di averle riposte, in attesa di un qualcosa di indefinibile.Sullo schermo tremolano vecchi brani di film: un incontro sulla spiaggia, due teste piegate all’ eterno moto dell’onda, i Doors in scena, Jim Morrison che alza il volto alla luce, agnello dalla dura carne; l’ ebete sollievo dell’alcool, l’ esorcismo della poesia, lo sciamano cui viene strappato il velo, mostrando un volto senza età, la lingua della lucertola che schiocca:
"that's the end..of the game, the end of the night...";
colore che va e viene, Jim che viene e basta.

Questa, dunque, "la fine della notte".
Più nessuna richiesta, per il passato o il futuro.

Allora ripensi a tutto quello che la storia ti ha lasciato dentro, su questi Doors, esistiti nella cruciforme Los Angeles delle illusioni, una foto stampata in giallo e nero, legati all’ albero, trafitti al cuore. E su cosa rappresenti Jim Morrison, che solo un fenomeno sociale come quello della mitizzazione delle rockstar e la spocchia di molti intellettuali benpensanti hanno tenuto lontano dalla categoria "letteratura", ed hanno impedito di prenderlo seriamente in considerazione come poeta, e poeta di talento, sulla scia di molti altri artisti "maledetti" riconosciuti, ma morti troppi anni fa per essere avvertiti come minaccia. Per esempio, Rimbaud, che Morrison amò al punto di scrivere una lettera appassionata ad un autorevole accademico americano che ne aveva curato la traduzione, Fowlie Wallace, ringraziandolo per il suo lavoro. A distanza di anni da quell'evento e dalla morte del giovane Jim, l'anziano accademico esperto di letterature comparate, ha scritto un saggio molto affascinante "Rimbaud e Jim Morrison. Il poeta come ribelle" (ed. Il Saggiatore). Quanto è lontana quest'immagine di Jim Morrison da quella descritta dal film di Oliver Stone e da tanto sensazionalismo fondato sulla ben nota ed ormai logora trilogia "sesso, droga & rock and roll"! La realtà è che nel 1968, l'allora venticinquenne Jim Morrison, nel pieno del suo successo, quando le cronache raccontano solo le sbronze epiche, gli abusi di droghe e le avventure con le grupies, è al contempo un fine lettore di poesia e letteratura francese, talmente inebriato dai versi del poeta "maudit", da sentire l'urgenza di scrivere all'illustre accademico - con la presunzione e la sicurezza che solo un'artista consapevole delle proprie qualità può permettersi - per complimentarsi con lui per il suo libro su Rimbaud.
Questo è solo un aneddoto ed uno dei moltissimi elementi che rivelano un Jim Morrison sconosciuto ai più: il grande poeta che egli sentiva di essere, al punto da rinnegare, negli ultimi mesi di vita, quel ruolo di rockstar che il fato gli ha cucito addosso, con la complicità del suo ego e di un pubblico giovanile desideroso di trovare uno sfogo ed una rappresentazione alla sua ansia di ribellione alla bigotta società americana (forse) degli anni '60.
Jim Morrison, la versione per l’inferno del paradisiaco Nick Drake, era uno studente brillante, originale, un divoratore di libri, anche insoliti e sconosciuti dai suoi stessi insegnanti, che lo adoravano per la sua intelligenza fuori dal comune e per la passione che infondeva nello studio, uno studio non ortodosso, non costante, non convenzionale, ma così vitale, autenticamente vissuto, da indurre i professori a lasciarlo fare ed anzi, a confrontarsi con lui in lunghi ed eruditi dibattiti che spesso lasciavano a bocca aperta i compagni di classe, e questo sia negli anni di liceo sia all'Università di Cinematografia dove si laureò.
Jim Morrison era ben conscio della sua profonda intelligenza.
James Douglas Morrison è sempre stato reticente sul proprio passato; "non voglio che venga coinvolto chi vuoi starsene fuori". Di lui si conosce una data di nascita (8 dicembre del 1943); una carriera scolastica che lo fa approdare, alla fine, alla UCLA, al Corso di Cinematografia. "Il cinema non conosce principio d’autorità" come scrive sulla sua resi di laurea "Tutti possono inventare un film nella propria mente. E la mancanza di esperti fa sì che, almeno a livello tecnico, ogni studente sia in grado di saperne quanto un professore…E' una sorta di scultura umana. In un certo senso è come l'arte, poiché dà forma all'energia, e in un altro senso è una sorta di consuetudine o ripetizione, uno schema ricorrente o una sacra rappresentazione significante. Pervade ogni cosa. E' come un gioco".
Lo stesso concetto può applicarsi alla sua musica.
Nel luglio del 1965, Morrison comincia a parlar di musica con Ray Manzarek, un compagno di scuola che si diletta a suonare le tastiere. Gli recita i testi di numerose canzoni già pronte. Ray contatta il batterista John Densmore. Due mesi più tardi, con i fratelli di Manzarek, Rick e Jim, alla chitarra, i Doors hanno già approntato un nastro di prova con dodici canzoni da sottoporre alle case discografiche.
Uno "scopritore di talenti" della Columbia Records, Billy James, rimane impressionato dal potenziale del complesso ed impone ai cinque un contratto a breve termine.L’ accordo però non ha seguito e i Doors tornano ad esibirsi nei locali notturni di Sunset Strip. Robbie Krieger, un chitarrista proveniente dalla giungla di musicisti californiani, si unisce alla formazione al posto dei fratelli Manzarek e il gruppo trova un ingaggio fisso al "Whisky at Go Go", per un periodo di quattro mesi. I Doors crescono in maturità musicale, Jim, dal canto suo, sulla scena si dimostra onnipotente; ed il gruppo comincia a raccogliere un notevole seguito di ammiratori. Il presidente della Elektra, Jack Holzman, li vede al Whisky durante la lunga permanenza e, dopo qualche esitazione iniziale, intavola con il gruppo serie trattative. L’ autunno del 1966 vede i Doors in studio, a registrare il primo album.
L’anima di William Blake presenzia al loro battesimo: "Ci sono cose che conosciamo e cose che ci restano ignote; in mezzo stanno le porte della percezione." Per anni questa frase verrà, erroneamente, attribuita a Jim stesso…
Il produttore Paul Rothschild qualche mese dopo in un’intervista su "Crawdaddy" ricorda: "Non ho mai provato tanta commozione in sala d’incisione .Mi impressionava il fatto che per la prima volta o quasi nella storia del rock and roll un vero e proprio dramma veniva registrato su disco". The Doors dimostra interamente le possibilità del complesso: i diversi brani rivelano le svariate facce della poliedrica personalità del gruppo. Per una "Back Door Man" che mostra le credenziali erotiche (e "Soul Kitchen" non è da meno), c’è "Twentieth Century Fox" con abbagliante neon di California e, un passo oltre, il quadro d’ epoca di "Alabama Song (Whisky Bar)", una canzone di Bertolt Brecht e di Kurt Weill. "Light My Fire" è il pezzo di punta (senza il lungo inciso strumentale sarà il primo, trionfale singolo), mentre "The Crystal Ship" offre passaggi per regni inesplorati, l’ "altra parte" di cui era evocata una traccia misteriosa in "Break On Through".
Lo sforzo definitivo dell’ album, "The End", è la canzone che chiude gli spettacoli dei Doors: creature dall’ incedere lento, che Morrison aveva voluto come liquido affresco di volti e immagini reduci da faticosi viaggi. "Vieni, bimba, prova con noi" è il grido lusingante, che rimarca terrori reali o immaginati e pulsazioni fosforescenti, disfacimento. Giù, lungo i corridoi, oltre ogni visione, incontro all’ abbraccio edipico. "Padre, voglio ucciderti. Madre, voglio fotterti... ", linguaggio bestiale dell’istinto primigenio. "Provai la sensazione di una purificazione emotiva" spiegò Rothschild nella già citata intervista a "Crawdaddy". "C’erano altre quattro persone nella cabina di regia, quando la registrazione terminò, e ci accorgemmo che il nastro continuava. Stavamo tutti ad ascoltare, sembrava quasi che le macchine da sole sapessero cosa fare. "
In modo fulmineo, Morrison e i Doors balzano alla celebrità, diventando i cuccioli prediletti dell’ underground americano. Quando "Light My Fire" sale in testa alle classifiche nazionali, nell’ estate del 1967, la base del loro successo si allarga ulteriormente; l’ispirata sensualità di Morrison trova posto senza fatica sia tra le pagine di "Vogue" che tra i fogli delle riviste giovanili. Per rendere l’idea, in tempi più recenti, solo Kurt Cobain ha una simile gloria.
In scena, l’ artista continua a superarsi, trova giustificazioni culturali alla propria sfacciataggine, muove tra il pubblico, coltiva frenesia e rabbia, tutt’uno col microfono. Sempre sull’ orlo del rischio, Morrison dà tutto di sé, come se ogni spettacolo fosse l’ultimo.
Arrivano, rapidamente, tempi più cupi. Paralizzati dalle opposte richieste del pubblico (chi voleva canzoni di successo, chi domandava "arte"), i Doors si trovano nella incapacità di conciliare le domande in maniera soddisfacente. Morrison, soprattutto, pare ora scoraggiato, ora pieno di stimoli. "La mia è una sorta di scultura umana" spiega a "Rolling Stone" "simile all"arte, perché dà forma all’ energia.., una consuetudine, qualcosa che si ripete, un progetto che abitualmente ricorre, una sagra con un certo significato. Qualcosa che pervade tutto." Troppo spesso, però, accade che i suoi tentativi di creare un certo clima cadano nell’ indifferenza; e se, d’ altro canto, l’ artista decide di portare una situazione alle estreme conseguenze, eguale disagio può leggersi negli occhi del pubblico.
Tutto questo viene reso chiaro dal secondo disco, dove vibra proprio quest’ aria donchisciottesca. Con Strange Days, la poesia si fa più formale ("Horse Latitudes"), la spavalderia più evidente ("Love Me Two Times"), il mosaico surreale di "The End" diventa l’ invocazione stridente di "When The Music’s Over". Ma i Doors, come la maggior parte della loro generazione, non ha ancora deciso cosa farsene del mondo, una volta arrivati alla stanza dei bottoni. In un certo senso, la svolta si era avuta con "Light My Fire".
Morrison cerca di comporre la frattura, ma finisce col peggiorare le cose. In "The Unknown Soldier", un brano del 1968 con tanto di accompagnamento scenico, sacrifica il proprio Io al grido di "La guerra è finita", sopravvivendo in scena per annunciare la buona novella.
Troppo facile.
Come troppo semplice è il suo messaggio al mondo della follia, dei sogni ebbri, della schizofrenia: con la stessa disinvolta facilità, si poteva starne certi, Morrison può diventar poeta segnato dal cielo. Con "Celebration of the Lizard" prende corpo un vecchio disegno epico; pure, del lungo episodio viene inciso un solo frammento, "Not To Touch The Earth". Col passar del tempo, la musica acquista in tessitura e ricami; Morrison, dal canto suo, scava la terra dell’ intima fantasia, materia ricca e grassa, secondo i riti della fertilità naturale. Ma forse la partita si gioca anche "dentro"; le pretese di una pop star contro le pretese di un artista. E forse era troppo presto per capire che la soluzione era a portata di mano, che le due cose potevano conciliarsi benissimo.
Comunque sia, il comportamento di Morrison si fa sempre più capriccioso; il culmine venne raggiunto nel marzo del 1969, quando l’ artista è arrestato durante un concerto al Miami’s Dinner Key Auditorium con l’ imputazione di "oscenità e comportamento lascivo in pubblico, per aver mostrato parti intime del corpo, simulando altresì la masturbazione e la copulazione orale"; le accuse più gravi vengono in seguito a cadere, ma Morrison finisce con l’ esser visto di malocchio da quelli del "giro" pop.
E poi ci sono altri problemi; i Doors hanno bisogno di fermarsi e di ripensare alla propria esperienza. I dischi di successo ("Tell All The People", "Touch Me") continuano senza sosta, la qualità dei 33 giri si mantiene elevata (alcune tra le opere migliori ancora dovevano arrivare; così The Soft Parade, così Morrison Hotel, con il suo sguardo al passato rock, e Absolutely Live, con la stesura completa della Celebration). Pure, Morrison capisce che è tempo di fermarsi a far benzina.
"Penso di essere una persona intelligente, sensibile, con l’anima di un clown che finisce sempre per risaltare, nei momenti più importanti" confessò a "Rolling Stone", candido più di un giglio.
Incapace di trovare una soluzione con i Doors, Morrison prova a cercarne una senza il complesso. Per L.A. Woman, settimo e ultimo disco per la Elektra, opera più che tranquilla, il gruppo decide di usare i propri studi personali. Pur continuando a bere come un tempo, Jim pare calmo, arrivato a un certo equilibrio; pubblica un libro di poesie, "The Lords and the New Creatures", e in altri volumi a tiratura limitata (così "An American Praver", nel 1970) dà libera espressione alla propria personalità.
Tradotti anche in italiano, su volontà dell’artista ("Tempesta elettrica" – Arcana Editore- 1970), incontrano notevole successo, ed il gruppo comincia ad essere conosciuto anche da noi, complice un giovanissimo Carlo Massarini ed un illuminante Paolo Giaccio, che nella neonata trasmissione radio "Per voi giovani" diffondono il Verbo e creano un’icona.
Manca poco alla fine, però, meno di quanto Jim possa immaginare.
L.A. Woman è il suo testamento a Hollywood, canzoni come "Riders On The Storm" (la mia preferita in assoluto) gridano a tutti la sua inquietudine, la precarietà della non esistenza e dell’alienazione. Ormai giunto nell’ "altra dimensione", Morrison si sente senza personalità precisa, incapace di tornare al punto di partenza. Consapevole di tutto ciò, lascia la California e fissa nuova residenza a Parigi, con la moglie Pamela. I Doors si abituano a lavorare senza di lui, operando in trio. Dopo aver cercato invano di mantenere la vecchia ditta senza il capo originale, John e Robbie formano la Butts Band. Ray Manzarek, dal canto suo, ritaglia un piccolo spazio personale, ostinandosi ad esibirsi come solista.
A Parigi, Morrison non esce dal "giro", tiene contatti telefonici con i vecchi amici e con gli "uomini del potere". Disturbi alle vie respiratorie hanno notevolmente diminuito la razione giornaliera di fumo; lontano dalle scene, Morrison scrive copiosamente. Il 3 luglio del 1971, si alza di buon’ ora per un bagno; Pamela lo trova lì, nella vasca, "un mezzo sorriso dipinto in faccia ", morto per infarto. La notizia non viene resa pubblica per parecchi giorni, sin dopo la sepoltura, avvenuta senza clamore nell’ angolo dei poeti del cimitero di Père Lachaise, a Parigi. "Non ci furono onoranze funebri" raccontò il manager Bill Siddons. "Solo qualche fiore, un po’ di polvere, il nostro saluto". Superfluo dire che tuttora è un continuo peregrinare di ragazzi di tutte le età, un tributo ad un poeta troppo giovane per diventare maledetto e troppo sensibile per diventare "vecchio".
Si lasciò morire per epica stanchezza esistenziale?
Scomparve per liberarsi da se stesso?
Tutto questo non lo sapremmo mai, ma nello storico cimitero del Père-Lachaise di Parigi i visitatori assicurano l’immortalità a

James Douglas Morrison
1943-1971
Artista, poeta, compositore

Così è scritto sulla sua tomba, dichiarata monumento nazionale.
Consegnandosi (consapevolmente o no) alla morte, Jim Morrison si è, comunque consacrato all’eternità.
Ci piace ricordarlo con questo ritratto:
"L'alcol era la panacea di Jim, la pozione magica che rispondeva ai suoi bisogni, risolveva i suoi problemi e gli appariva storicamente come 'la cosa da fare'. La sua distruzione era armonica rispetto all'immagine dionisiaca con cui si era identificato e che amava diffondere; era anche saldamente radicata nella tradizione culturale americana" (tratto da "Nessuno uscirà vivo di qui", J. Hopkins, D. Sugerman, ed. BluesBrothers).
Jim era perfettamente consapevole anche quando beveva. Amava dichiarare: "quando ti ubriachi, sei completamente controllato...fino a un certo punto. Ogni sorso che bevi è una scelta. Hai tante piccole scelte. E' come...credo che sia la stessa differenza che corre tra il suicidio e la lenta capitolazione".
E il valore di carburante creativo che attribuiva all'alcol e quindi il suo grande amore per la poesia sono espressi in questi versi:

"Perché bevo?
Così posso scrivere poesie.
Talvolta quando si è a fine corsa
ed ogni bruttura recede
in un sonno profondo
c'è come un risveglio
e ogni cosa rimasta è reale.
Per quanto devastato è il corpo
lo spirito cresce in energia.
Perdona a me Padre poiché io so
quello che faccio.
Io voglio ascoltare l'ultima Poesia
dell'ultimo Poeta"

venerdì 1 giugno 2007

33 & 1/3


"Dicono tutti che le mie canzoni hanno contribuito all'emancipazione femminile, ma all'epoca non ero davvero consapevole. Nella mia carriera non ho mai sentito che l'essere donna fosse un ostacolo o un vantaggio. Ho sempre pensato di essere ben accetta o respinta solo per quello che facevo"
(Carole King, da “L’Espresso” – febbraio 2004)

Ci sono Artisti che entrano nel cuore, nella memoria, nel Mito, nella leggenda, o più semplicemente sotto pelle, quindi nella Vita, con una canzone, con un album, con una riga di musica o parole: Carole ci è entrata con una collezione di canzoni intime e raffinate, che rappresentano, come dice lei stessa nella title track, la visione comune di chi puo’ affermare con sincerità che “la mia vita è stata un arazzo dalle mille sfumature, una visione duratura e cangiante”.
Quando esce "Tapestry" (siamo nel 1971) Carole King, a 29 anni, è già una giovanissima veterana, almeno come autrice: un brano scritto da lei ed inciso dalle Shirelles, “Will You Love Me Tomorrow”, ha spopolato nelle classifiche del 1960; ed in coppia con l'ex marito Gerry Goffin, ha scritto per Aretha Franklin, i Monkees, i Drifters, i Cookies, gli Animals e molti altri (addirittura la loro baby sitter, la diciassettenne Little Eva, resa milionaria da “The Locomotion”….); ragazzina prodigio dalle molte amicizie ed amori (Paul Simon, James Taylor, Neil Sedaka che nel '59 le aveva dedicato la celebre "Oh! Carol"), arriva alla soglia dei trent'anni con un grande bagaglio di esperienze e successi professionali, ma senza aver mai assaporato in prima persona la grande fama presso il pubblico, anche a causa di una forte paura del palcoscenico. E’invece una esordiente come artista solista (ha all'attivo solo un album, "Writer", ignorato dal pubblico). Per "Tapestry", Carole si gioca il tutto per tutto: nella sua tappezzeria recupera appunto “Will You Still Love Me Tomorrow", ed altre canzoni celebri, come "You've Got A Friend", portata al successo da James Taylor, o "(You Make Me Feel Like) A Natural Woman", resa celebre da Aretha Franklin. Furbizia commerciale, come sostiene qualcuno, o desiderio di affermare la genuinità della propria ispirazione? Non dovrebbero esserci dubbi, è un album che trasuda personalità fortissima e coesione intimamente connessa con la personalità dell'artista. E la conferma è proprio nei brani nuovi, scritti appositamente dalla autrice King per la interprete Carole, canzoni che fanno breccia, si insinuano appunto sotto pelle: si va dal frizzante r&b di "I Feel The Earth Move", al vibrante e luminoso gospel di "Way Over Yonder", alla devastante dolcezza pianistica di "So Far Away" o della title-track, il ritmo felpato e jazzato di “It's Too Late” (disco dell’anno, che come singolo spopola per radio e classifiche), la solidità melodica di “Home Again”, l'intreccio delicato della celeberrima “You've Got A Friend”, l’inno della riscoperta di un valore intimista come l’amicizia disinteressata (e trasversale) tra i sessi.

“Quando sei giù, quando sei nei guai
e hai bisogno di qualcuno che ti dia una mano
e niente, niente va bene,
chiudi gli occhi e pensami
e presto sarò là
a rischiarare le tue notti buie
devi solo chiamarmi
e sai che dovunque io sia
verrò di corsa, baby
per vederti di nuovo.
Inverno, estate, primavera o autunno
tutto ciò che devi fare è chiamare
e io ci sarò,
tu hai un amica”


In tutti i brani, corredati da arrangiamenti asciutti e discreti, la spina dorsale restano il pianoforte e la voce di Carole, ma sono decisivi anche gli interventi di chitarra acustica di Taylor, la chitarra solista di Danny Kortchmar, il basso asciutto di Charles Larkey, già compagni di gruppo nei City.E poi, lei, la sua voce limpida e acuta, che puo’ sembrare troppo educata, ma che si sa animare e colorare di impreviste sfumature, come nella sarcastica "Smackwater Jack" o nella già citata, splendida "Way Over Yonder". Carole vince la sfida della ribalta, dimostrando di essere un'interprete autentica, oltre che una ottima autrice, pienamente all'altezza delle proprie canzoni. Del resto le sue doti di autrice non sono mai state né in discussione e, forse, mai così brillanti: una scrittura leggera e assieme efficace, che sa impreziosire brani pop con disarmanti virate jazzistiche.L’album ha un immediato, clamoroso e meritato successo, anche per la sintonia con gli umori di un’ epoca. Molti hanno detto che "Tapestry" era la colonna sonora ideale per il doloroso risveglio dagli anni '60 e la fine del sogno hippy: Carole, più rassicurante di altri cantori del proprio intimo e privato, culla l’ascoltatore ricordandoci o insegnandoci che, anche nei momenti peggiori, "abbiamo un amico" disposto a correre in nostro aiuto. Un album che non cambia la vita di Carole nei rapporti col pubblico: lei vive in riservata discrezione, non è e non sarà mai una rockstar: lascia che siano le sue canzoni a parlare per lei.Un album da ascoltare sfasciati su un divano, occhi chiusi, un biglietto di un viaggio in tasca, un telefono tra le mani appeso tra una chiamata sfortunatamente non fatta ed una che vorresti fare ma non puoi, una sigaretta che potrebbe essere l'ultima della sera o la prima della notte.Un album intimo e raffinato, opera di una cantautrice di grande sensibilità che parla di sentimenti con semplicità e tatto; ma anche una perfetta macchina da classifica, un disco in grado di imporsi sulle radio e sugli scaffali dei negozi. Ecco, "Tapestry" di Carole King è tutte e due le cose contemporaneamente: e già in questo equilibrio c'è la grandezza di questo album. Uno dei rari casi di pop con l'anima, testimonianza più che mai vitale di un'età dell'oro in cui era possibile essere leggeri ma non superficiali, semplici ma non insulsi. E ancora oggi ci sono molte ragazze, da Norah Jones ad Alanis Morissette, che devono sicuramente qualcosa a Carole e al suo pianoforte.
Una foto non sbiadita nell’album di famiglia.


sabato 7 aprile 2007

Music was my first love.....


fonte: Museo del Louvre



Ci sono momenti per la musica?
O la musica cambia a seconda dei momenti in cui la si ascolta?

Ragionandoci, e parlo per esperienza personale -che non significa che io abbia le tavole della Legge, tuttaltro- direi che la prima molla dell'imparare ad ascoltare sia la curiosità.
Curiosità, intanto, di rovistare con le proprie orecchie tutto l'udibile possibile.
Suoni che ad un primo ascolto sembrano tutti uguali o del tutto alieni, finiscono col rivelarsi e diventare imprescindibili da noi.
In casa mia, da ragazzo in braghe corte -chè a quei tempi solo a 15 anni portavi i pantaloni lunghi, i "bambini" non potevano- mio padre non ascoltava altro che tutto il jazz possibile, da Glenn Miller a Charlie Mingus, le big band, le grandi soliste come Ella o Billie.
Ma bisogna abituarsi, e non avere pregiudizi di nessun tipo.

Io all'epoca scoprii Beatles, Rolling Stones, poi Pink Floyd e Dylan: mi sembrò di aver visto la luce. Ascoltavo cassette prima, i dischi poi, chiuso in camera, costretto dai miei, che asserivano fosse solo puro, fastidiosissimo rumore molesto.
Fui persino picchiato quando mi mangiai una sabatina investendola in "Ummagumma", ed avevo già 14 anni...
Vendicativamente, anni dopo, ho fatto sorbire loro un viaggio in macchina con sottofondo musicale tutto a base di Rolling Stones. Rivelato che cosa stessero ascoltando, mi hanno risposto che adesso facevano musica molto più melodica e sopportabile (addirittura bella, quando è partita "Angie"). Peccato che i dischi fossero gli stessi di allora, visto che sono 30 anni che non compro più nulla degli Stones...
Morale: è tutta questione di abitudine, quindi mai tapparsi le orecchie col pregiudizio.

Seconda considerazione: modi e livelli possibili di ascolto.
Sono certamente quanto di più soggettivo esista. Ognuno può scegliersi il proprio, e non è detto che esso a seconda delle occasioni e delle esigenze non possa mutare. C'è chi adotta musica per accompagnare le azioni della giornata, una colonna sonora della propria esistenza: di conseguenza, riferimenti, ricordi, emozioni che vivono e rivivono nella nostra memoria proprio grazie all'abbinamento con una canzone o con una melodia.
E cambia, nell'arco delle ore: ascoltare i Led Zeppelin a basso volume è un reato per cui non si applica l'indulto, Chopin come colonna sonora all' ipermercato è da processo per direttissima.
Anche se la musica può essere semplicemente un (piacevole) sottofondo alle più disparate attività. Gli americani usa(va)no addirittura un termine, "easy listening", con cui definire tutto quanto è di facile ascolto, e che è diventato un vero e proprio genere. Musica che non disturba, anzi creata ad hoc per transitare tra le orecchie senza coinvolgere il cervello.
Musica è anche uno straordinario mezzo di aggregazione: aiuta a trovare amici, ad impiegare il tempo, o permettere un approccio profondamente intellettuale a chi si interessa della struttura melodica, armonica, ritmica di un brano, della tecnica strumentale, della ricerca delle più disparate sonorità, dei testi poetici che spesso accompagnano la partitura.
Ma si può semplicemente ascoltare anche per puro piacere: la musica, tutta la musica, è comunicazione di sentimenti, di sensazioni, un aiuto a rilassarsi, è capace di far amare una melodia senza sapere nulla su di essa, su chi l'ha scritta, su chi la esegue.
L'importante non è tanto come si ascolta o perchè: fondamentale è l'ascoltare. Ed ascoltare tutto, senza preconcetti o preclusioni di sorta.
E' assolutamente da coltivare la curiosità che, al tirar delle somme, affina l' orecchio e, soprattutto, libera la mente. I sintomi della avvenuta infezione aiutano a vivere meglio: penso alla ipersensibilità ai concerti, alla accelerazione del battito cardiaco in presenza di casse acustiche che sparano anche migliaia di watt, al bisogno di costante presenza di suoni nell'ambiente circostante (e nella propria memoria): uso (e abuso) di fonti di riproduzione sonora nel corso della giornata sono tutti segni estremamente positivi.
E se la febbre da possesso degenera nel collezionismo, non è niente di grave: soprattutto se confrontato al grigiore del silenzio.
Infine, ma non meno importante, è il divertimento legato alla musica. La musica non ha mai smarrito quella che si deve considerare una delle sue peculiari caratteristiche, connessa con il suo essere una espressione fortemente popolare. Il bisogno di ballare, di muoversi, saltare, battere le mani o i piedi, cantare, cose che molto spesso accompagnano l'ascolto, lo dimostrano chiaramente.
Quindi, di musica si può chiacchierare, scrivere, discutere anche animatamente, la si può anche esaminare e vivisezionare nota per nota, sottoponendola a critiche severissime o consensi entusiasti; ma fondamentalmente bisogna ascoltarne.
Si rivelerà così come un qualcosa di assolutamente indispensabile al quotidiano di ognuno di noi.
Alla vita.

domenica 18 marzo 2007

Tutto questo cosa c'entra con il rock'n'roll?


Il lavoro è necessità, là dove la necessità, secondo la legge di natura, è anche la madre dell’invenzione” (Platone)
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1973: un concerto rock, forse, un maxischermo, spariscono le immagini dei suonatori ed appare il Presidente.
Non c’è impegno più rischioso, responsabilità più seria di essere una madre.” Richard Nixon
«Grazie Dick» risponde Frank Zappa, il medio della mano destra alzato in un inequivocabile segno che ultimamente abbiamo adottato anche noi della colonia mediterranea dell’Impero. Frank Zappa: non solo un grande chitarrista, non solo un grande musicista rock estremamente prolifico (la sua discografia è immensa: più di 80 album), non solo un intelligente provocatore: innanzi tutto un musicista, la cui grandezza è stata riconosciuta (caso più unico che raro, per un artista di estrazione rock) da grandi autori di musica "colta" come Karlheinz Stokhausen, o Pierre Boulez. Quest'ultimo ha detto di lui: "Come musicista era una figura eccezionale perché apparteneva a due mondi: quello della musica pop e quello della musica classica. E non è una posizione comoda". Zappa non è personaggio facile da descrivere. Si definiva musicista rock , ma non aveva nessun imbarazzo a muoversi tra precise geometrie sinfoniche, complesse strutture jazz, schemi di musica leggerissima; materiale che, a seconda delle intenzioni dell’artista, può esser preso singolarmente o suonato contemporaneamente.Sotto il profilo dei «debiti artistici», Zappa si dice influenzato in pari misura da Bill Haley e da Edgar Varèse e non trova incompatibilità fra le due cose.Una delle sue prime composizioni, Trouble Every Day, ritrae con agghiacciante realismo i disordini del ghetto di Watts: uno dei più bizzarri racconta di un uomo che sogna di coltivare scorie dentarie in un ranch del Montana. A questo punto ci si può domandare: cosa succede?Risposta dell’uomo-macchina: «Il progetto di base viene approntato nel 1962-1963. Esperimenti preliminari hanno avuto luogo nei primi mesi del 1964. La costruzione del progetto- oggetto ha avuto inizio alla fine di quello stesso anno. Il lavoro è ancora in fase di esecuzione ». Francis Vincent Zappa è nato il 21 dicembre 1940, a Baltimora, da genitori di origine greco-siciliana. All’inizio degli anni ‘50 la famiglia emigra in California e nel 1956 si stabilsce a Lancaster, un avamposto ai confini del Deserto di Mojave. All’Antelope Valley High School, il giovane Zappa comincia ad interessarsi di R & B con un gruppo chiamato i Blackouts; lo stile era semplicissimo, i componenti erano autodidatti alle prese con l’ABC della teoria musicale.«Sino a quindici anni non sentii praticamente musica. I miei genitori non erano appassionati e in casa mia non c’era nè radio nè giradischi o cosa del genere. La prima musica che mi attrasse fu quella araba... soltanto per caso venni a contatto con il R & B. Cominciai a scriver canzoni (nel senso stretto del termine) soltanto a venti, ventun anni; prima, le mie composizioni erano brani per orchestra o per complesso da camera. Penso che alla base di ogni esperienza compositiva ci sia un desiderio di far chiarezza con se stessi e di esprimersi come pare; si scrive quel che si reputa buono, senza preoccuparsi di lasciar traccia nella storia musicale o meno. Per quel che mi riguarda, scrivo musica perché voglio sentirla. »Dopo gli anni di preparazione, Zappa esce allo scoperto con una colonna sonora, Run Home Slow, che gli procura abbastanza denaro per rilevare uno studio a Cucamonga, California. Lo chiama Studio Z, comincia ad affittarlo ai musicisti della zona e lo utilizza come laboratorio d’acustica; nel frattempo, forma un complessino chiamato i Mothers. Le vicende umane e professionali dello Studio Z, ed il particolare atteggiamento di Zappa, lo rendono personaggio difficile ma conosciuto: dopo una perquisizione effettuata dalla polizia di San Bernardino, vengono trovati nastri contenenti le registrazioni di un’orgia. Per la Contea di San Bernardino è veramente troppo: Frank si trova ben presto nelle severe aule di un tribunale, accusato di produrre pellicole pornografiche. Zappa sconta 10 giorni di carcere (dei 6 mesi a lui affibbiati dalla giuria), mentre la ragazza implicata viene liberata pagando la cauzione con i soldi provenienti dai diritti maturati dalle innocue canzoncine scritte da Zappa per complessini easy listening.Passata la bufera, nel 1964, l’artista lasciò alle spalle le beghe di provincia e la sua Uglytown e parte alla conquista di Los Angeles. La «città di plastica» vive in quei giorni torridi dello sconquasso sociale, la frangia più inquieta della gioventù locale popola Sunset Strip, guardata a vista dalla polizia; la vicenda darà luogo a scontri fisici e, meno prosaicamente, a fenomeni culturali come il folk rock e la psichedelia.Nel suo covo del Cantor’s Delicatessen, a North Fairfax, Zappa assorbe il clima dello «sballo» emergente, qualcosa che vibra per l’aria ventiquattr’ore su ventiquattro. Dell’esperienza fa tesoro, riorganizzando le Mothers e aggiungendo come manager un ex tiratore scelto, Herb Cohen; giunge anche un contratto discografico, quando il produttore Tom Wilson (fresco reduce da un periodo di collaborazione con Bob Dylan) vede il complesso, una sera, al Whisky at Go Go.«Lo “sballo”» spiega Zappa nelle note all’album d’esordio, Freak Out! « è un processo per cui un individuo getta via i superati e castranti schemi di pensiero, di abbigliamento e di collocazione sociale al fine di esprimere creativamente il proprio rapporto con l’immediato prossimo e con la struttura sociale nel suo complesso. »Nelle quattro facciate del primo concept-album della musica pop, Frank definisce i limiti logici della «controcultura». Composizioni astratte come Help I’m A Rock e The Return Of Son Of Monster Magnet danno forma a una sorta di «musica aleatoria» fatta di voci e di strumenti improbabili: l’omaggio agli anni ‘50 di Go Cry On Somebody Else’s Shoulder appare solo una manovra diversiva per poter cantare, alla resa dei conti, Who Are The Brain Police?, « Chi è la Polizia del cervello? ». E in fondo a tutto, Zappa pone a Suzy Creamcheese, la maliziosa eroina dei primi anni Mothers, la domanda decisiva: « What’s got into you? », « cos’hai dentro? ». Freak Out dimostra che l’uomo conosce più di una risposta.L’album viene completato nei primi mesi del 1966: pubblicato alla fine dello stesso anno, a dir poco infiamma l’ambiente underground. Quando Zappa giunge a New York, nel 1967, per una serie di esibizioni al Garrick Theatre, alla confusione acustica si aggiunge un comportamento assolutamente provocatorio. Dal fondo della sala al palcoscenico viene teso un lungo filo da bucato, carico di una moltitudine di oggetti. Durante l’ esibizione, Zappa invita, anzi, incita alcuni marines presenti in sala ad unirsi al gruppo per una rappresentazione dell’addestramento delle Forze Armate; i soldati prendono a baionettate alcune bambole mentre vengono scanditi slogan antimilitaristi.Il lavoro dell’artista muove fondamentalmente in due direzioni; il cinismo ostentato serve ad aprire una più accessibile strada all’esperienza musicale. Sul secondo album Absolutely Free, bersaglio prediletto di Zappa diventa la « gente di plastica » che vive nella mediocrità; le canzoni del disco insistono sino all’ossessione, provocatoriamente, sui punti deboli di quella perversa «razza ».Il testo di PLASTIC PEOPLE, per intenderci, dice: “Signore e Signori... Il Presidente degli Stati Uniti! Amici Americani... Doot, Doot, Doot...è stato male! Doot! Doot! E penso che sua moglie gli porterà del brodo di pollo. Uno: So che è difficile difendere condurre una politica impopolare ad ogni occasione . Due: E poi c'è quel tipo della CIA e sta facendo il leccaculo attorno a Laurel Canyon. Una bella ragazzina mi sta aspettando. È di plastica più che mai, si dipinge la faccia con pastrocchi di plastica e si rovina i capelli con dello shampoo”.
Con Were Only In it For The Money, parodia del Sgt. Pepper beatlesiano (spinta a tal punto che l’uscita dell’album viene ritardata per quasi un anno, per risolvere i problemi legali relativi alla copertina), l’ira zappiana si estende agli stessi compagni di barricata. Dopo aver avvisato i potenziali ascoltatori di ascoltare l’album tenendo sottomano «Nella Colonia Penale» di Franz Kafka, Zappa annota: « Ogni città dovrebbe avere un luogo di riunione per gli sporchi hippies, celle psichedeliche ad ogni angolo di strada... ».Alle annotazioni di carattere sociologico si accompagnano lunghi episodi di ricerca sonora; l’artista si premura di spiegare con estrema pazienza, uno per uno, gli intricati passaggi per chiunque sia interessato all’ascolto. Nell’organizzazione Mothers, il livello di tecnica strumentale è generalmente elevato; la maggior parte dei componenti proviene dalle file dei musicisti diplomati e/o professionisti, e Zappa è solito stimolarli ai vertici massimi, impiegando chiavi, misure di tempo, frasi musicali prese qua e là da ogni angolo della storia della musica. Si tratta di un lavoro estremamente impegnativo; non a caso, il ricambio delle formazioni Mothers è sempre stato eccezionalmente elevato. Fra i collaboratori regolari si possono ricordare Jimmy Carl Black («l’indiano dei gruppo»), il batterista BilIy Mundi (sostituito più avanti da Aynsley Dunbar), il bassista Roy Estrada, i flautisti Bunk Gardner e Jan Underwood e il factotum Euclid James “Motorhead” Sherwood. Col passar degli anni, anche il respiro delle Mothers si dimostra troppo corto per i molteplici interessi di Zappa; così, alla fine del 1968, l’artista scioglie il gruppo e si concentra su progetti solistici, allestendo due etichette discografiche complementari, la Bizarre e la Straight, rifugio di alcuni tra i più stravaganti artisti di Los Angeles. L’interesse di Frank, solitamente rivolto non meno al lato sociologico della vicenda che all’aspetto musicale, lo spinge a lanciare le G.T.O.’s (Girls Together Outrageously), Larry “Wild Man” Fischer, il primo Alice Cooper, Captain Beefheart. Sul finire degli anni ‘60, Zappa comincia a lavorare ad un film-diario, «200 Motels» (di una precedente pellicola, «Uncle Meat», era stata resa pubblica solo la colonna sonora), si esibisce in concerto con la Filarmonica di Los Angeles, sforna dischi ad andatura sostenuta; tra le opere più riuscite, Hot Rats, lavoro fondamentalmente strumentale, esercizio di notevole maestria chitarristica, Burnt Weenie Sandwich, Weasels Ripped My Flesh.Nel cassetto dell’artista, peraltro, rimangono inediti per altri dodici dischi che secondo un vecchio proposito zappiano, verranno a costituire una specie di archivio storico sulla vita e le diverse epoche delle Mothers.Con gli anni ‘70, Zappa modifica l’originario atteggiamento di provocazione in chiave sociale per passare a modi d’espressione più surreali ed astratti. Con l’aggiunta degli ex-Turtles Mark Volman e Howard Kaylan (ribattezzati Flo and Eddie), i suoi spettacoli si fanno più grossolani, appariscenti, mentre la musica subisce un processo di purificazione, consegnando a Zappa quel «potenziale commerciale» la cui mancanza era vanto delle prime Mothers. Nel maggio 1971 appare in uno dei concerti tenuti da John Lennon e Yoko Ono al Fillmore East (la performance è presente sul disco di Lennon/Ono "Some Time In New York City") e, sempre nello stesso anno, durante un tour mondiale perde tutte l'attrezzatura e strumentazione a causa di un incendio al Casinò di Montreux in Svizzera (episodio che sarà ricordato anche nella canzone "Smoke On The Water" dei Deep Purple).Un inno a un cane da slitta, Don’t Eat The Yellow Snow, scala per la prima volta le classifiche dei 45 giri, nel 1974; album come Just Another Band From L.A., Waka/Jawaka, Apostrophe, Grand Wazoo entrano con facilità nelle charts internazionali. Nel 1977, Zappa prepara un progetto quadruplo (Lather , che uscirà nella sua forma originale solo postumo nel settembre 1996 come triplo CD) che la casa discografica rifiuta. Diverso materiale estratto dal progetto finisce per riempire il doppio live Zappa In New York (marzo 1978), Studio Tan (settembre 1978), Sleep Dirt (gennaio 1979) e Orchestral Favorites (1979) che conservano tratti comuni peraltro non del tutto assenti nell'intermezzo di Sheik Yerbouti, doppio dal vivo del marzo 1979 (il cui titolo è un gioco di parole ispirato dall'album di KC And The Sunshine Band "Shake Your Booty"), che presenta canzoni controverse quali "Bobby Brown" e l'esilarante "Dancin' Fool".Il progetto più compiuto di fine decennio è la trilogia intitolata Joe's Garage Act I, II & III (un album singolo e poi un doppio, rispettivamente pubblicati nel settembre e nel novembre 1979), nella quale il compositore americano indica chiaramente di volersi riservare uno spazio per la sperimentazione chitarristica, come evidenzia il capolavoro "Watermelon In Easter Hay" (su Acts II & III), 10 minuti di assoluta, diamantina bellezza musicale.Nell'aprile 1981 Zappa organizza, produce e partecipa a New York City ad un concerto di musiche composte da Edgar Varèse. L'amore e il rispetto verso la musica "colta" contemporanea si manifesta anche nel 1983, in occasione di un concerto tenuto alla War Memorial Opera House di San Francisco, durante il quale Zappa dirige l'esecuzione di lavori di Varèse e di Anton von Webern.Dal punto di vista discografico gli anni '80 si aprono con un altro doppio dal vivo intitolato Tinsel Town Rebellion (maggio 1981, album in cui è rivisitata anche la "vecchia" canzone "Brown Shoes Don't Make It") ma, soprattutto, con l'ottimo You Are What You Is (settembre 1981), doppio album che rivede in organico Jimmy Carl Black e Jim "Motorhead" Sherwood delle Mothers. L'anno seguente (grazie all'esilarante singolo "Valley Girl") l'album Ship Arriving Too Late To Save A Drowning Witch (maggio 1982) riporta Zappa nelle zone alte delle classifiche.Negli anni seguenti l'ossessione per il lavoro e un eclettismo a tratti esagerato portano il vulcanico compositore a dividersi tra dischi rock (The Man From Utopia del marzo 1983, Them Or Us dell'ottobre 1984, Frank Zappa Meets The Mothers Of Prevention del novembre 1985 e Does Humour Belong In Music?, splendido live del 1986, pubblicato senza l'autorizzazione del musicista e, in seguito, ritirato dal mercato), momenti orchestrali (Francesco Zappa with London Symphony Orchestra I e II, Boulez Conducts Zappa/The Perfect Stranger, agosto 1984, brani composti da Zappa, eseguiti dall'Ensemble InterContemporain diretto da Pierre Boulez), esercizi di retorica e ossessioni solistiche dettate dall'uso reiterato del Synclavier mai privi di spunti interessanti ("Jazz From Hell" del novembre 1986 e "Guitar" dell'aprile 1988) sino alla realizzazione di una collana di sei album doppi intitolata You Can't Do That On Stage Anymore che, a partire dal maggio 1988, ripercorre vent'anni di carriera. La raccolta assembla in maniera ottimale tutto ciò che l'immaginazione del chitarrista americano riesce a concepire.Parallelamente alle innumerevoli pubblicazioni discografiche, Zappa sviluppa (insieme alla moglie Gail) un solido impero imprenditoriale fondando numerose società: Barking Pumpkin e Honker Home Video (rispettivamente per la vendita di dischi e video per corrispondenza), Barfko-Swill (vendita di oggettistica) e World's Finest Optional Entertainment Co. (produzione di spettacoli dal vivo).Il live Broadway The Hard Way (ottobre 1988) prelude a una serie di dischi celebrativi dal vivo: Make A Jazz Noise Here (doppio, giugno 1991, comprendente l'esecuzione di frammenti di composizioni di Stravinskij e Bartók), The Best Band You Never Heard In Your Life (doppio, aprile 1991), Playground Psychotics (doppio, ottobre 1992) e Ahead Of Their Time (marzo 1993) delle Mothers Of Invention, con la registrazione del concerto londinese dell'ottobre 1968 alla Royal Festival Hall.A New York City, nel 1991, alla vigilia del concerto-tributo "Zappa's Universe" alla musica del compositore, i figli Moon Unit e Dweezil annunciano che al padre è stato diagnosticato un tumore alla prostata. Nonostante la terribile malattia, il compositore americano continua a lavorare alacremente. Nel dicembre 1993 pubblica The Yellow Shark, un'opera straordinaria registrata con l'Ensemble Modern diretto da Peter Rundel e presentata in Europa da uno Zappa in precarie condizioni di salute. Sempre con l'Ensemble Modern registra un album di lavori composti dal suo grande maestro Edgar Varèse dal titolo provvisorio The Rage And The Fury: The Music Of Edgar Varèse.Zappa muore la sera del 4 dicembre 1993 nella sua abitazione di Los Angeles.L'opera postuma Civilization Phaze III (1995) non è brillante come la precedente e nel 1996 The Lost Episodes (raccolta di straordinarie stranezze incise dalla fine degli anni '50 agli ultimi giorni) ed il citato Lather confermano l'inarrivabile prolificità di un'artista che ha inevitabilmente segnato tre decenni di musica, spaziando con creatività originalissima attraverso rock, pop, jazz, trash, classica, contemporanea, satira sociale e irriverente disprezzo per la banalità di un ambiente al quale, dopo tutto, è sempre stato alieno.Per Zappa, tutto ciò faceva parte di un progetto totale, laddove lo scorrere del tempo si fissa in un solo, esteso lavoro. «La mia opera comprende ogni possibile mezzo di comunicazione visuale, » ebbe a spiegare una volta, «la consapevolezza di chi vi partecipa (pubblico incluso), tutte le mancanze percettive, Dio (come energia), la Grande Nota (come materia prima dell’architettura universale) e altro ancora. La nostra è un’arte speciale, in uno spazio negato ai sognatori.»

(un ringraziamento a “Onda Rock” per aver messo a disposizione il filo d’Arianna nei meandri dell’opera Zappiana)

domenica 28 gennaio 2007

A day in the life.....




Tutto cominciò, secondo la Storia, a Liverpool, una mattina che John Lennon "il cattivo" incoraggiò "quel bravo figliolo" di Paul a marinare la scuola e a scrivere canzoni come "One After 909" (dieci anni più tardi inclusa nell’album "Let It Be"). Paul era compagno di scuola di George Harrison e nel 1958 "Little George", nonostante le resistenze di Lennon, finì con l’unirsi al gruppo, che allora si chiamava "Johnny and the Moondogs". Un anno più tardi, il complesso ottenne la prima scrittura, alla Casbah, e trovò il primo batterista, Pete Best. Nel 1960, di scena al leggendario Cavern con il nome di Silver Beatles i quattro ricevettero un’offerta per suonare ad Amburgo dove, per la cronaca, suonarono con "Mino e i suoi fratelli", cioè Reitano ed un improbabile Lucio Battisti. Ma questa è un’altra storia…

Rientrati a Liverpool, ebbero un ingaggio al Cavern, luogo tetro, stipato di gente, dall’atmosfera pesante, malvisto dai benpensanti. I primi sei mesi furono scoraggianti. I contratti discografici erano rari; nessuna casa discografica pareva interessata al rock and roll anni ‘50 che i Beatles suonavano. Finalmente, nel luglio 1962 i quattro incisero, fra le altre cose, Love Me Do e P.S. I Love You, che in autunno vennero pubblicate su 45 giri, entrando lentamente nelle classifiche.
La Storia racconta che nel 1963 il virus benigno ma fortemente contagioso si diffuse per le Isole Britanniche. In ottobre raggiunse la Scozia e, nel gennaio dell’anno seguente, Parigi. Un mese più tardi gli Stati Uniti erano caduti sotto il suo dominio, poi Copenaghen, Amsterdam, Hong Kong, l’intera Australasia. Le vittime, debolissime, con pupille dilatate, la testa fra le mani in estatica agonia, ora gementi, ora urlanti di gioia, cercavano disperatamente di unirsi ai portatori dell’infezione in un supersonico urlo d’estasi. Il loro grido annunciava l’arrivo di una nuova specie: con i Beatles aveva inizio una nuova epoca, quasi una mutazione genetica rispetto al passato.
A gennaio era uscita "Please, Please Me", primo successo del gruppo a raggiungere la vetta delle classifiche. Assediati dal pubblico anche durante le prove, seguiti alla televisione da 27 milioni di persone (più di quante avessero assistito all’Incoronazione della Regina), braccati dai giornalisti alla ricerca di fatti nuovi e di aneddoti liverpooliani, i Beatles sostituirono Dio e Sua Maestà nella scala dei valori esistenziali.
Sfrontati, ingenui, con forte accento dialettale, buon umore effervescente, ingegno vivace, e una micidiale propensione per i giochi di parole ("Quelli del loggione applaudano, alla prossima canzone" disse una volta John davanti al pubblico della Royal Variety "gli altri faccian pure tintinnare i gioielli"), i " favolosi quattro" erano così, e basta.
Si chiede Lanny Kaye nella sua "Storia del Rock": "Quale fu la causa della Beatlemania? Una reazione all’assassinio di Kennedy? La caduta dell’Impero Britannico? Mutazione genetica? Una precisa risposta forse non c’è; meno difficile spiegarsi perché tutto ebbe origine da un improbabile posto come Liverpool. Al pari di New Orleans, altra città musicale per eccellenza, Liverpool è un porto di mare, un luogo che assorbe un’ampia varietà d’influenze. Fu in quella cìttà che, per la prima volta in Inghilterra, vennero importati dischi americani. Inoltre, negli anni ‘50, i quartieri del luogo conobbero numerose bande di teppisti rock and roll. Non appena Rock Around The Clock comparve sugli schermi, cominciarono a formarsi le prime bande, che alla fine rivolsero principalmente il proprio interesse sui complessi del luogo. Il piccolo esercito giovanile aveva propri locali e anche un giornale musicale, il "Mersey Beat". A tal punto arrivava la fedeltà agli idoli della tribù che, quando nell’agosto del 1962, Ringo Starr lasciò la sua band e sostituì Pete Best come batterista dei Beatles, scoppiarono tumulti e Brian Epstein temette per la propria incolumità".
Con i Beatles ebbe inizio la moda del complesso, entità autonoma, identità collettiva a cui il pubblico poteva partecipare. 1 Beatles furono i primi di questi moschettieri del rock (uno per tutti e tutti per uno), giunti a quella struttura per via del potere unificante delle armonie vocali. Nelle prime canzoni, i quattro invitavano espressamente a entrare nella loro famiglia musicale, impiegando le canzoni come forma di dialogo con il pubblico. Di fronte a "Love Me Do", "From Me To You", "All My Loving", "I Want To Hold Your Hand",il pubblico rispondeva urlando...
Un’imponente campagna pubblicitaria, con 5 milioni di adesivi con la scritta " Stanno arrivando i Beatles " invase gli States.. In tre sole settimane, cosa mai accaduta prima, i Beatles arrivarono al primo posto. Quando scesero dalla scaletta all’aeroporto Kennedy, nel febbraio del 1964, vennero salutati da 10.000 fans in delirio. Avevano subito fatto colpo. Mentre i quattro passavano per i controlli doganali, migliaia di ragazzi scendevano le scale pettinandosi le acconciature con frangia, movendo le strette giacche a coda. I disc-jockey presero a misurare la temperatura in gradi Beatles, il tempo in Beatle-secondi. C’erano contenitorì di uova siglati Beatles, tappezzerie, bambole, magliette, parrucche, camicie da notte, orologi con la loro immagine. La leggenda racconta che un giornalista chiese: "Come avete trovato l’Amerìca?" e John rispose "A sinistra della Groenlandia".

Per dire.

John, Paul e George avevano suonato insieme per quattro anni prima di incidere il primo disco e proprio a quella lunga preparazione si deve il loro controllo sul linguaggio musicale. Ai Beatles vanno riconosciute le prime innovazioni nel rock. L’equilibrio delle diverse personalità, sia sotto il profilo musicale che sotto l’aspetto psicologico — ballate agrodolci per Paul, atteggiamento militante e giochi di parole per John , l’estro un po’ giocherellone di ringo, il misticismo di George— dava nuovi impulsi e creatività. Dato che tutti i brani erano scritti (almeno) a quattro mani, ne derivò un suono più vario e complesso di quello degli Stones.
Il rock and roll aveva costituito la maggior parte del loro repertorio, quando allo Star Club e al Cavern si esibivano in spettacoli di 6 o anche 8 ore ma i quattro non l’avevano mai considerata una musica vecchia, materia per esercizi di nostalgia. Per loro, quello stile era parte di una vicenda senza soluzione di continuità e nei personali rifacimenti, nelle citazioni, i quattro riportavano alla mente la vitalità e l’" immortalità" del miglior rock and roll. Il primo album suona come una dedica a quelle proprie radici, su "Help!" Paul imita alla grande Little Richard, in "I’m Down".
Ricordo ancora quando mi recai al cinema, all'epoca una sala da terza visione; avevo rotto abbondantemente per essere portato a vedere un film dei Beatles. Già da tempo conoscevo i vari 45 giri, soprattutto "A hard day's night" (il titolo, seppi dopo, fu suggerito a John da una battuta di Ringo) e "I should have known better", pezzi di una sonorità così nuova e sconvolgente per i tempi da provocare, in ragazzini così bravi, così "Dio Patria e Famiglia" e poco "fuori" come lo eravamo ai nostri tempi, degli autentici brividi con tanto di pelle d'oca e sudore freddo. Per tutto il film, forse eravamo nel 1967, quindi avevo una decina di anni, fu un continuo urlare assieme ai fans del film, quasi un concerto, la simulazione di un concerto, lo stare insieme per vedere qualcosa di così sconvolgente per noi, nella nostra città di provincia, insieme, gridando. Mai successo prima niente di simile. Mio padre, col suo Glenn Miller nelle orecchie, trasaliva. All'uscita dal cinema, ricordo, mi disse che se fossimo andati allo zoo almeno avremmo respirato aria pura (all'epoca nei cine si fumava....). La nostra rivincita di ragazzini sul melodico italiano, l'irrompere di un sogno di cui non si vedeva la fine, di possibilità diverse di essere ragazzi, di un mondo sconosciuto che avremmo voluto vedere e vivere. Un altrove che era Londra.
In quel film il regista , come trovai scritto anni dopo, fa fare di tutto ai Beatles e i Beatles fanno fare di tutto a lui. Loro impersonano se stessi e la beatlemania, allora all'apice; sono così naturali che non sembra neanche che stiano recitando.
Il primo album interamente composto da John, Paul e George, sulla spinta di una certa evoluzione musicale e lirica, è sicuramente "Rubber Soul", pubblicato nel dicembre del 1965, fu. Sino ad allora, John aveva limitato la perversa vena surreale ai suoi sforzi letterari ricchi di un qualche accento joyciano; dopo un incontro con Dylan a New York, però, l’artista cominciò a usare immagini maliziose anche nelle canzoni, che da "Norwegian Wood" in avanti acquistano in personalità. Gradatamente, i testi diventano quasi ermetici, come in "Strawberry Fields", "Across The Universe", "I Am The Walrus" e "Come Together" (vengono i brividi solo all’idea di un album che le contenga tutte insieme…). Con il sitar di "Rubber Soul", i quattro cominciano ad allargare anche il proprio vocabolario musicale e su "Revolver", forse l’album rock più innovativo di tutti i tempi, arrivano clavicembali, fiati,violini, nastri fatti girare al contrario: basta citare gli esperimenti elettronici di "A Day In The Life". Senza limiti tecnici o musicali, come l’uso di una marcetta che fa da tema conduttore a "Sergeant Pepper’s", il capolavoro psichedelico per il quale i Beatles vennero canonizzati da Timothy Leary come "I Quattro Evangelisti di Liverpool".
Quando tutto sembra andare di bene in meglio — erano le quattro persone più famose del mondo, "più popolari di Gesù", come John aveva detto sconsideratamente, alla ricerca dell’Illuminazione con l’aiuto del guru Maharishi — gli eventi cominciano a declinare. Prima la morte di Brian Epstein, per eccesso di barbiturici. Da quando i Beatles avevano smesso di girare in tournée, il suo mondo era crollato. Senza "Papà", come Paul lo aveva soprannominato, i Beatles finiscono col diventar preda della megalomania affaristica, di facili schemi psichedelici, di tautologie trascendentali, dilaniati da lotte intestine. Dai tempi del " doppio bianco ", nel 1968, John, Paul, George e Ringo praticamente smettono di suonare insieme. Il vero scioglimento avviene molto prima di quello ufficiale, nel gennaio del 1971. Il loro incredibile ottimismo che, per spontanea esuberanza, per energia, per immaginazione ci ha regalato una visione pulita del mondo viene a mancare, dopo un’ultima apparizione sui tetti di Abbey Road e, forse, del mondo. Tutto quello che con loro diventava gioco, con il teatrino discografico, con le canzoni-sciarada di John, con il Sottomarino Giallo, un gioco col quale si possano però risolvere i problemi del mondo attraverso la musica, spariscono su un malinconico "Let it be"; risolvere i problemi no, ma basta ancora una loro "Eleanor Rigby", "Michelle", "Yesterday" per sperarlo, per almeno un minuto, o per regalare un sorriso. O una lacrima..